Nessuno educa da solo
L’educazione come pensiero comune

L’educazione è prima di tutto pensiero. Occorre prendersi il tempo di pensare l’educazione contro l’ansia del “fare” a tutti i costi che caratterizza anche le pratiche educative.

Ma pensare che cosa? Anzitutto i soggetti dell’educazione (prima di tutto le fasce d’età, che non possiamo continuare a moltiplicare come facciamo per l’infanzia e l’adolescenza, ma nemmeno vaporizzare in progetti non specifici; ma occorre anche pensare gli individui e la collettività contemporaneamente, tenere insieme queste due parti in ogni progetto.

Occorre poi pensare i bisogni educativi: sono davvero così tanti come appaiono? Siamo ancora capaci di discernere bisogni veri da bisogni indotti? E soprattutto: sappiamo che educare significa anche aiutare il soggetto a riformulare il bisogno, anche se questo significa in primo luogo dare una frustrazione?

Occorre poi ripensare gli educatori: la loro professionalità, le loro caratteristiche, la loro formazione (soprattutto)

Oggetto di pensiero deve infine essere l’educazione sommersa, quell’educazione nascosta e diffusa alla quale questo progetto sembra fare esplicito riferimento e che forse ne costituisce l’elemento più forte; educare si può fare anche senza una divisa e senza un ruolo definito, portando l’educazione nelle strade e nelle piazze come possibilità, non come obbligo o come merce.

Un progetto che incroci educazione e socializzazione deve affrontare la contraddizione odierna che affligge i servizi sociali ed educativi: da un lato il trionfo dell’egoismo e l’idea del servizio a domanda individuale hanno invaso l’educazione; dall’altro si assiste a un apparentemente sbilanciamento in direzione della socializzazione. Essa ha un momento quantitativo (si socializza sempre più precocemente; si socializza sempre più a lungo; sempre nuovi  individui e gruppi umani vengono  trascinati nel processo di socializzazione)  e un momento qualitativo (sempre meno è ciò che nell’individuo sfugge alla rete dei rapporti sociali tra gli esseri umani; la socializzazione ora colpisce il  singolo  nella sua stessa  interiorità): ma il vero problema è che la socializzazione non mette in discussione le basi e le premesse del modello dentro il quale si svolge: la competizione e selezione e la fine del pensiero critico.

Il progetto di cui ci occupiamo si rivolge alla comunità. Ma che cosa è la comunità?

La comunità soddisfa bisogni psichici primari: il calore dello stare insieme, il senso di vicinanza fisica, la possibilità di vincere la propria solitudine affondando in una dimensione gruppale, la liberazione dal peso delle responsabilità individuali; tutti elementi che rendono anche pericolosa la situazione comunitaria soprattutto quando utilizzata a scopi desolidarizzanti.

Come allora connettere le strutture delle comunità con i bisogni primari dell’individuo? È la comunità che deve adattarsi ai bisogni primari dell’individuo? In questo caso vince la legge del più forte. E’ l’individuo che deve adattarsi alle norme della collettività? In questo caso il rischio è la divinizzazione della norma, con l’effetto di quello squilibrio che viene definito “normosi” e che porta ad alienazione e anomia.

L’equilibro sta nel mostrare come una comunità fornisca nel qui ed ora all’individuo risposte a domande universali e in questo può essere uno specimen di una società futura (come già aveva intuito Gramsci) 

La comunità ha allora tre dimensioni

Una dimensione sapienziale (di conoscenza dei dettagli della quotidianità, alla quale la dimensione comunitaria porta un sapere vivo e gravido di sapore; una dimensione profetica (perché realizza al quo interno la chiamata personale a ciascuno sollecitando la responsabilità individuale) e una dimensione apocalittica (caratterizzata dall’apertura al futuro, dallo sblocco della fissità del presente, dal superamento della storia intesa come sortilegio)

Questo ideale regolativo è applicabile anche ai piccoli gruppi e al progetto nel quale questo intervento si inserisce. Non si tratta allora di portare l’educazione nelle piazze come un distributore automatico di merci ma di portarvi una sollecitazione e una provocazione per far comprendere come in una reale comunità il problema dell’altro è anche un mio problema perché c’è almeno un aspetto del suo problema che riguarda me, il mio stile di vita, le mie scelte quotidiane.

Prof. Raffaele Mantegazza