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sintetizzata in un quaderno

Un progetto e un quaderno tra scuola e lavoro

Alberto Contu / Claudio Gorlier
responsabili del metodo Cultura in Movimento educatori del Circolo ARCI Cinema Vekkio Aps

Era fine estate 2022 quando come progetto Cultura in movimento abbiamo saputo di aver ottenuto il finanziamento per un bando della Regione Piemonte destinato agli Enti del Terzo Settore. La notizia ci rendeva ovviamente contenti, (soprattutto sollevati vista la nostra “continuità nella precarietà” lavorativa), ma allo stesso tempo sentivamo di fondo una sensazione “strana”, un’inquietudine che sapevamo si riferiva al fatto che la nostra progettualità avrebbe dovuto svilupparsi in interventi di accompagnamento e inclusione a favore di giovani Neet.

A cosa era dovuta (e in parte lo è ancora) la nostra difficoltà rispetto al tema? Sostanzialmente per la grande sovraesposizione e insistenza mediatica che vede adolescenti e giovani descritti come irresponsabili, “zombie sociali”, “bamboccioni” viziati interessati solo al divertimento sfrenato e ovviamente sfaticati parassiti riluttanti alle grandi e invitati opportunità di lavoro, magari sostenuti da redditi di cittadinanza e affini.

La categorizzazione Neet (che ricordiamo va ad identificare quella parte di popolazione giovanile che in un determinato momento storico non studia, non lavora e non è inserita in percorsi formativi altri) crediamo si inserisca, incrementi e sostenga acriticamente questa narrazione. Questo soprattutto per l’etichettatura in sé, che come ogni tassonomia sociale inchioda ad un ruolo, ad una posizione in maniera assoluta e immodificabile nell’immaginario comune. Allo stesso tempo non abbiamo potuto e voluto ignorare la questione in sè, ma abbiamo cercato di inserirla in una dinamica che partendo dalle situazioni in carne ed ossa (dei Marco, delle Carla, dei Francesco e Francesca…) ci auguriamo le abbia potute rendere collettive, e quindi sociali e politiche. E se tali sono dovrebbero interessarci e coinvolgerci tutti e tutte. Insomma ci siamo avvicinati (al contrario delle categorie) alla tematica rendendoci prossimi alle Storie delle persone, e quindi tentando di tenerci lontano dalle colpevolizzazioni personali.

Abbiamo sentito la responsabilità di approcciarci ai contesti e ai/alle ragazzi/e che abbiamo incontrato come figure vere, autentiche, promotrici di emancipazione.

Ora ci si intenda bene, non siamo stati e non pensiamo assolutamente di essere stati dei “salvatori di anime”, ma crediamo da sempre che se la pedagogia può essere strumento di creazione di soggettività e comunità rinnovate in un’ottica liberatoria, questo possa avvenire solo grazie alla combinazione di contenuti di Senso abbinati ad un passo, ad una postura, ad uno stile che ci renda credibili e soprattutto incarnati in essi.

Quindi Cultura in movimento, la sua inchiesta e pratica pedagogica come si sono potute muovere in tale dinamica, che ripetiamo è fatta di persone e situazioni reali?

Sin da subito siamo usciti da una pressione narrativa legata unicamente alle passioni, al “devi trovare la tua strada”, perché in alcuni momenti di vita invece di stimolare e dare spinta questa può aumentare ansie e riprodurre “l’imprenditorializzazione della propria vita” o schemi di fallimenti già vissuti.

Abbiamo poi ragionato sul Senso del Lavoro, inteso soprattutto nel cosa vorrei fare ed essere da grande. Ci siamo messi in ascolto degli aspetti multipli e diversificati di una persona. Senso del lavoro come riflessione sull’importanza delle varie mansioni sociali e non come cultura del successo; Senso del Lavoro come alfabetizzazione sulle modalità e condizioni di lavoro. Abbiamo provato a lasciarci alle spalle le biografie che inchiodano al passato, qualunque esso sia, e di partire da zero, lavorando più sulla sceneggiatura di una vita possibile, su una vita da riscrivere e re-immaginare. Tutto ciò creando un clima relazionale caldo e una serie di incontri e di luoghi in cui poterci riconoscere a vicenda.

Tre classi di quinta superiore di un istituto enogastronomico e alberghiero (SanDamiano d’Asti), due gruppi informali di giovani rispettivamente di un centro di aggregazione e di un collettivo politico (Cinema Vekkio Corneliano e Alba), persone uscite da poco dalla formazione professionale di stampo elettrotecnico, un gruppo di ragazzi e ragazze appassionati e dediti al rap (Monticello e Alba) e infine persone incontrate in strade, parchi e giardini, comunità alloggio (centro di accoglienza minori non accompagnati Canale) …ecco chi sono i protagonisti di quello che ci piacerebbe immaginare come un quaderno di storie tra il presente e il futuro, storie di un presente e un futuro profondamente diversi da quelli inseriti in traiettorie già segnate in partenza….

Fakebook,
la condizione di Neet come ritratto sbagliato

Stefano Laffi
ricercatore sociale

Neet? No, grazie

Chi compone l’album dei cosiddetti ‘Neet’, ovvero chi sono i ragazzi e le ragazze che si trovano oggi in quella condizione, spesso scambiata come la prova dell’indolenza giovanile, del parassitismo dell’adolescente nell’approfittare del comfort domestico?

Per fortuna da un po’ di tempo abbiamo cominciato a far ricerca, per restituire verità e dignità a quella condizione. Sappiamo che sono tanti, tantissimi in Italia, eppure sono difficili da raggiungere, agganciare, identificare, perché sono spesso fuori dai radar della scuola, dei servizi, dei luoghi di lavoro, dell’offerta formativa del territorio. Sappiamo che l’etichetta ‘neet’ inganna, perché dietro a quell’acronimo che sembra alludere a due condizioni esistenziali come fossero le uniche degne di cittadinanza – da giovani o si studia o si lavora, tertium non datur – ci sono condizioni diversissime, a volte tutt’altro che disimpegnate: vi ricade ad esempio una ‘ragazza madre’ – che deve accudire un figlio neonato giorno e notte – o un giovane che lavora in nero – quindi invisibile al sistema ma spesso ‘sfruttato’ dalla mattina alla sera. Quell’etichetta inganna perché i lavori di ricerca e di inchiesta, come questo, ci dimostrano che quella è una condizione dinamica, non statica come sembra invece voler affermare, quasi a dire che se non si studia o lavora da giovani si è a casa a non far nulla. Ma quella doppia negazione un senso ce l’ha, solo che è diverso dal suo significato: i giovani in quella condizione non sono né fermi a godersi l’indolenza né soprattutto vi si riconoscono. ‘Questo non sono io’ è come se dicessero tutti, una volta conosciuti nelle loro storie.

La dinamica di una parvenza statica

In che senso quello di NEET non è uno stato, ma una condizione dinamica? Può esserlo in senso di agency, come dicono i sociologi, di attivazione nella ricerca di una soluzione, di formazione o di lavoro, senza che questa sia ancora giunta. Spesso sono ragazzi e ragazze ‘in forte sbattimento’, si potrebbe dire mimando il gergo giovanile, cioè stanno provando, cercando, navigando, facendo colloqui, districandosi fra le voci e i passaparola di opportunità riferite da altri. A volte sono proprio in questa transizione di ricerca, ancora incerti fra la casella di studente che non sono più e quella di lavoratore che non sono ancora. Ma va detto che questa ricerca può essere complicata, difficile, disorientante: è evidente che qui è venuto meno il principio della linearità e della continuità, ovvero non siamo di fronte a quelle vite in cui un ragazzo sogna di fare l’ingegnere per cui sceglie il liceo scientifico dopo la scuola media, si diploma e si iscrive al Politecnico, si laurea e inizia a lavorare da ingegnere, avverando l’immagine di 10 anni prima.

Qui qualcosa è andato storto: il passaggio alle superiori è risultato infelice nella scelta, oppure sono subentrati insuccessi scolastici o difficoltà famigliari, o è risultata infelice la scelta universitaria, o complicato trovar lavoro col proprio titolo di studio. Scegliere è molto difficile, è una competenza che nessuno ci insegna, ci si trova a farlo senza preparazione e proprio quando ne va della propria vita: si fanno in classe le prove generali per incendi e terremoti, eventi per fortuna remotissimi, e invece non lo si fa per prepararsi a scegliere, situazione inevitabile, da cui tutti passano. Così succede che in una classe delle scuole superiori di secondo grado, al primo anno, molti degli studenti presenti abbiano dubbi sull’aver fatto la scelta giusta, ma cambiare è complicatissimo, una volta infilatisi in una scuola superiore è molto difficile trovar posto in un’altra. E arrivati in quarta succede che la maggioranza della classe non abbia idea di cosa fare dopo. E poi ci sono migrazioni famigliari o individuali, crescenti fragilità famigliari o personali, un incremento delle separazioni dei genitori e della loro precarietà lavorativa, maggior diffusione delle difficoltà di apprendimento dei figli, ovvero tutte le vicende che rendono complicato guardare avanti e vedere una strada da percorrere. Insomma, quella linearità e continuità è in realtà privilegio di una minoranza, sono pochi quelli che 10 anni dopo fanno esattamente quel che immaginavano a 14 anni, le vite curvano, i più correggono continuamente la rotta, se va bene senza interruzioni, se no cadono appunto nella condizione di ‘NEET’. L’Italia ha non solo una quota di giovani in quella condizione pari quasi al doppio della media europea, ma è sopra quella media anche in fatto di dispersione scolastica e universitaria, e batte tutti in tema di proporzione fra disoccupazione giovanile e disoccupazione adulta. Spesso questo dato viene messo in relazione paradossale con la fatica delle aziende a reperire certe figure professionali, come se ci fosse un cortocircuito informativo fra ciò che serve e ciò che si sceglie, ma questa è una semplificazione poco utile a capire le cose: si sceglie forse troppo presto rispetto all’età, in modo netto e con scarse possibilità di correzione del tiro, sulla base di rappresentazioni inadeguate del futuro e delle professioni, ma ancor più con scarsa cognizione di sé.

Personaggi in cerca d’autore

Tutto ci dice quindi che questo paese ha un problema non tanto o non solo drammatico, ma ‘drammaturgico’, perché per i più giovani mancano per così dire ‘copioni adeguati’. È come se ci trovassimo di fronte ad una massiccia assenza di parti che non funzionano nella ‘sceneggiatura” della transizione alla vita adulta: ‘io non sono quello che sto recitando’ lo dicono implicitamente in molti, alle scuole superiori e all’università, e spesso anche al primo impiego, che non di rado si chiude per abbandono, non per fine contratto.

Proviamoci a chiedere perché si abbandona, non si entra o si rifiuta quella parte, di studente o lavoratore che sia, ovvero si è ‘neet’. Ad esempio perché te l’hanno raccontata diversa da come era: l’economia di mercato si basa sul desiderio e la vendita di sogni, non sull’introspezione e la riflessione individuale, si mostra la parte che luccica per attrarre clienti, mai la ruggine. Sono ‘mercato’ anche gli open day delle scuole superiori o dell’università, le presentazioni aziendali dentro i PCTO scolastici, le giornate dell’orientamento con gli sportelli volanti per conoscere le aziende: così succede spessissimo di restare delusi, che la scelta una volta compiuta tradisca le aspettative di quell’anteprima fasulla, perché quei laboratori mostrati agli open day non si usano mai, quella ‘centralità delle persone’ vale a intermittenza, la ‘stabilità dei docenti di ruolo’ riguarda l’altra sezione, colloqui così gentili non sono la norma delle relazioni quotidiane di lavoro. Ma anche al netto dell’inganno del mercato una parte può deludere per l’imponderabile del gruppo, per le relazioni in cui ci si trova immersi: ‘trovarsi male’ coi compagni di classe o coi colleghi di lavoro non è un dettaglio, può essere un veleno quotidiano, che alla lunga intossica ed espelle persone. Si va a scuola per imparare ma vi si resta per come ci si trova, a domanda diretta un adolescente dirà che ogni giorno prende e va a scuola per quanto sta bene in classe, coi compagni, nonostante quella materia o quell’insegnante, mentre non vale il contrario, se le relazioni non funzionano vorrà abbandonare.

Poi ci sono situazioni in cui la tua parte non c’è, non è prevista: i cosiddetti MSNA cioè i ragazzi e le ragazze con background migratorio arrivati in Italia senza una famiglia di appoggio vogliono lavorare, lo dicono a gran voce, hanno quella come missione urgente da raggiungere e non ne possono più di stare fermi, in comunità, ad aspettare, ‘neet’ appunto. Ma quel posto di lavoro non c’è, è difficile da trovare, richiede tempo, preparazione. Basta ascoltarli nelle interviste di questa inchiesta, sembrano una compagnia di attori in cerca d’autore, perché il paese che li ospita non ha previsto una parte per loro. Per altro il rapporto fra adolescenza e lavoro è un tema, la protezione da condizioni di sfruttamento ha finito per sacralizzare quell’età, sigillarla nei percorsi di studio e allontanarla fin troppo dal lavoro, mentre forse andrebbe risaldata quella relazione, ci sono profili di adolescenti che stanno male in classe e starebbero certamente meglio in un contesto di lavoro, proprio nel senso di riscoprire un proprio valore.

E veniamo al disorientamento, alla situazione davvero più complessa e probabilmente più diffusa, cioè non sapere qual è la tua parte. Quando domanda e offerta non si incontrano spesso si pensa ad una questione di mancate informazioni e allora nascono portali, si diffondono sportelli, cioè si allestisce l’anello mancante che dovrebbe saldare i due lati del mercato. Ma oggi il tema principale è un altro, è una questione di rappresentazioni più che di informazioni: ti eri immaginato un certo percorso di studi o di lavoro e ti ritrovi alle prese con altro, l’impegno richiesto, la natura delle cose che ti ritrovi a fare, le relazioni in cui sei immerso o i livelli retributivi non coincidono con le tue aspettative. L’esempio più frequente è il passaggio dalla passione alla professionalizzazione: ti piace disegnare ma quando ti iscrivi al liceo artistico scopri che non ti piace studiare quel che è previsto per quel percorso, ti piace suonare ma scopri che il settore discografico è una giungla nella quale è difficile muoversi, ti piace giocare a calcio ma ti accorgi che vivere di quello è un sogno di massa con pochissimi posti liberi rispetto al numero di aspiranti.

Non sapere qual è la propria parte

In questo ritrovarsi senza parte perché si era immaginato un altro copione c’entrano evidentemente i due temi già trattati, l’effetto vetrina che ha distorto la realtà delle cose e il disporre di informazioni sbagliate o insufficienti. Ma spesso c’entra un altro grande deficit del nostro sistema educativo e formativo, l’esplorazione maieutica delle vocazioni.

Si sa che le vocazioni si definiscono già in adolescenza eppure sono pochissimi coloro che a quell’età sono in grado di dire quale è la propria. Una ragazza che conosco mi ha di recente spiegato così la sua visione: “a scuola vige la regola della pagella, una ‘bella pagella’ è quella piena di 8 e di 9, tutti noi cerchiamo di alzare i voti bassi spostando energie e impegno dalle materie in cui già andiamo bene, e questo è profondamente sbagliato. Bisognerebbe fare il contrario, puntare su ciò che ti riesce meglio e poter progressivamente disinvestire dalle discipline in cui fai più fatica”. Questo ragionamento si espone a diverse obiezioni e certamente è plausibile solo dopo aver assolto una serie di conoscenze di base, oltre a dover fare i conti con la constatazione comune a molti di noi che spesso è il/la docente ad appassionare ad una disciplina, non i geni o il genio personale. Ma al netto dell’abilità del docente resta vero che la logica della pagella non aiuta e che la sequenza ininterrotta di voti alti (o bassi, da questo punto di vista è lo stesso) che viene applaudita dagli adulti è in realtà una maledizione, perché non dice chi sei.

Che cosa consente di scoprire la vocazione, che cosa svela la strada da percorrere? Una serie di condizioni che mancano al nostro sistema educativo e formativo: uno sguardo non pregiudiziale ai diversi corsi di studio e mestieri, tutti legittimi e degni di scelta, la possibilità di esplorare tante strade e di misurarsi con esperienze di studio e di lavoro differenti, il transito da ruoli diversi e che espongano al rischio ovvero con compiti di realtà che mettano alla prova le abilità individuali, un affiancamento individuale da parte di qualcuno che possa aiutare a rileggere le esperienze fatte e individuare quelle in cui si è capito di aver fatto la differenza. Mentre una scuola superiore percorsa come un tunnel, in cui serve la sufficienza in tutte le materie se no le rifai tutte- a pensarci, è assurdo, perché il risultato è che odierai quella per cui ripeti l’anno e ti verranno a noia quelle che ti piacevano – senza deviazioni possibili, con un paio di stage, tirocini o PCTO al massimo, senza figure adulte prossime abbastanza da svolgere quella funzione… è agli antipodi dell’esplorazione vocazionale.

Riorientare, ovvero riscrivere il proprio copione

I nostri personaggi hanno bisogno di un’altra storia, sono rimasti impigliati in quella sbagliata. A volte questo restare impigliati – dimenandosi per sfuggirne o disarmati nel ritrovarcisi – brucia molte energie e dopo un po’ smetti di provare. Non a caso le situazioni più complesse da sciogliere sono quelle dei ragazzi e delle ragazze più grandi, quando passano gli anni senza riuscire a cambiare la situazione, perché quel tempo trascorso è un predittore della sua cronicità: più ci resti, più diventa il tuo destino. Lo sconforto di una ricerca frustrante, l’ansia del tempo che scorre, un susseguirsi di esperienze precarie, il senso di fallimento personale, la perdita di fiducia sulle proprie possibilità e capacità, fino alla rinuncia, spesso questo è il viaggio, dalla maggiore età ai 30 anni.

Cosa significa riscrivere la propria storia, ovvero cos’è di aiuto per chi vive quella situazione? Il passato non si può cambiare ma lo si può rileggere diversamente: il curriculum vitae è solo la fotografia del percorso scolastico o lavorativo, ovvero i due ambiti più problematici in queste biografie, mentre forse c’è un’altra storia sotto traccia, sono accadute altre cose che hanno regalato emozioni positive, percezioni di adeguatezza e di valore personale, magari nello sport o nell’esercizio di interessi personali, nelle relazioni con amici e parenti o in singoli episodi che riaffiorano cercando la storia inedita di quel ragazzo o ragazza. Non chiedendo conto delle pagelle ma scorrendo le rubriche dei cellulari, le proprie chat o la galleria delle foto si può riscoprire una vita fatta di relazioni, di cose piacevoli, di esperienze significative di cui istintivamente si è tenuta traccia, per avere con sé ciò per cui vale la pena alzarsi la mattina. E se il passato non si può cambiare, conviene cambiare i pesi, scommettere sul presente e sul futuro, provare a disegnare un nuovo personaggio.

Per questo possono risultare molto utili gli esercizi espressivi, lavorare con la narrativa, la poesia, il fumetto, la musica, il teatro, la radio, insomma con tutti i mezzi che la nostra cultura ha messo a punto per costruire storie. Il riorientamento non solca il passato ma crea una deviazione inattesa, apre strade non battute: l’errore degli adulti è spesso questo, stare su un piano informativo, che sia retrospettivo o previsionale – quali studi fatti, quali esperienze pregresse, quali mestieri aspirabili – mentre è l’altro emisfero cerebrale che va messo al lavoro, o almeno anche l’altro emisfero. Esplorare desideri e immaginari, arricchirli di materiali che non si conoscono, imparare a dire di sé e chiedere del mondo sono esercizi fondamentali, per riaffacciarsi con un volto diverso, una nuova maschera che non sia più quella della sconfitta. Si sa che si va verso ciò che si desidera, nessuno cammina guardandosi indietro.

Antifumetto

Nel laboratorio di (Anti)fumetto abbiamo innanzitutto cercato di collegarci ai temi e ai percorsi che erano emersi nel laboratorio di narrazione pedagogica di Cultura in movimento per poi sviluppare un lavoro sperimentale, inclusivo e sociale. Per il Collettivo Franco l’arte è un mezzo di ascolto e di comunicazione, un mezzo di interazione con i ragazzi e le ragazze incontrati/e, capace di intervenire sulla quotidianità. Questa impostazione supportata da una progettualità fortemente tesa all’attivazione del pensiero creativo e dell’immaginazione collettiva ha permesso a tutti e tutte le partecipanti di costruire il proprio fumetto. Un fumetto che da singolo è diventato collettivo attraverso la restituzione e la condivisione pubblica delle “tavole” e delle storie. Ci piacerebbe che questi disegni potessero “parlare” un po’ a tutti e tutte, ad altri ragazzi e ragazze innanzitutto, ma anche ai tanti adulti che speriamo si potranno fermare un attimo ad osservarli, dai professori e professoresse di scuola ai semplici avventori di un bar.

Fumetto

con Canicola Edizioni e Collettivo Franco

Podcast

Audio Inchiesta

con Damiano Grasselli

La prima sensazione che si ha ascoltando i ragazzi del Cinema Vekkio che parlano di lavoro è quella di essere davanti a persone che cercano una protezione, che si sentono feriti e un po’ abbandonati dal e nel mondo. Le delusioni delle prime esperienze lavorative è palpabile. Al tempo stesso però c’è anche una forte dimensione di realismo che prende piede: “quando ti accorgi che non sarai un calciatore famoso…” Allora i nodi della vita cominciano a venire a galla e si inizia a prendere coscienza di quanto sia importante stare bene nelle cose che si fanno. Non un benessere fasullo. Uno stare bene legato alla famiglia, agli amici, all’abitare, al vivere quotidiano. E dalle loro parole questo cambiamento emerge in maniera nitida. Trasformare la delusione in una possibilità, anche in un contesto non sempre facile. Cercare qualcosa di buono dalla vita. Ciò che forse si avverte in difetto è uno sguardo di comunità poco lungimirante: poca coesione sociale, la presenza di una solidarietà che è sempre legata all’affetto e alla vicinanza, e mai all’appartenenza ad un mondo più ampio. Ma forse i tempi che viviamo sono quelli e guardare oltre il giardino del vicino per tutti è davvero difficile. Soprattutto per ragazzi che, dalle loro parole, fanno emergere di aver ricevuto un mondo in eredità altamente scricchiolante e precario.

Racconto di viaggio…

Essere abitante di una comunità per minori non accompagnati ha un significato ambivalente e contradditorio…ci è stato raccontato che è un luogo dove ti trovi “di passaggio”, in transito e dove non senti e non credi di appartenere pienamente, ma da un lato in quelle mura, in quelle stanze e in quegli spazi hai trovato un rifugio, una casa, una comunità…

Un luogo dove comunque e in qualche modo ti vuoi e ti puoi immaginare come Soggetto, come persona.

Ci siamo voluti immergere in questa realtà onestamente, ci siamo incontrati più volte per cercare di non avere il vestito degli educatori a caccia di storie difficili. Abbiamo giocato e fatto merenda insieme, e grazie a questi momenti abbiamo cercato di costruire il laboratorio di narrazione pedagogica come se fosse un flusso relazionale continuo e molto poco mediato.

Quale è stato il momento più significativo del tuo viaggio per l’Italia?

Quale è il tuo sogno italiano?

Da queste domande molto semplici, ma elaborate sapientemente da Kadri Lafi (educatore della comunità e mediatore linguistico) abbiamo poi cercato di giocare ai videomaker e soprattutto di provare a dare uno sguardo reale a quella immaginazione di sè al futuro….chissà se riguardando il filmato tra qualche anno alcuni di loro avranno “indovinato” il loro percorso, dove il lavoro è e sarà un aspetto fondamentale di costruzione di sè stessi.

Video

Video a cura di Cultura in Movimento

Canale

Gruppo Casa degli Angeli

Non speakko italiano

Erano presenti circa venti ragazzi dai quattordici ai venti anni provenienti principalmente da Egitto, Albania e Tunisia. Il laboratorio puntava alla creazione di un testo rap dove i ragazzi potessero esprimere i loro stati d’animo e il loro vissuto alla luce di una condizione di vita difficile. La musica ha rappresentato un ponte per mettere in contatto i nostri cuori, siamo riusciti a scrivere insieme un testo rap molto profondo e autentico, che è andato al di là di ogni barriera linguistica. Il racconto delle proprie storie, sono state la base di partenza per conoscerci, poi piano piano abbiamo dato vita al nostro testo dove sono uscite le fragilità, i naufragi alle spalle, ma anche il coraggio, la voglia di vivere e le prospettive per un futuro migliore, fatto di famiglia, passioni e lavoro.

Non speakko italiano
vado piano piano
vengo da lontano
alza la tua mano
Non speako italiano
vado piano piano
vengo da lontano
e ancora continuiamo
(alza la tua mano)
siamo i fantasmi della comunità
i fantasmi della comunità
prima c’era la mia mamma
c’era il mio papà
c’era la mia gente
ora non c’è più niente
fai finta che non vedi
finta che non senti
fai finta che non vedi e non senti
per superare tutti i patimenti
tutti gli agguati che abbiamo passato
viviamo liberi nel giusto
c’è successo di tutto
la paura non ci fa paura
la spaventiamo noi questa ombra scura
nel mare in carcere
chi ha superato tutta questa fase
non può essere spaventato
ma non vorrei tornare indietro
quando vedo tutto scuro grigio
ho un momento di sconforto
non penso al ritorno
perché sarebbe un fallimento
la mia sconfitta
fare rap in arabo non è facile
la lingua non ci divide
ci capiamo lo stesso
però ci capiamo lo stesso
ci capiamo lo stesso
se mettiamo un po’ di musica
un pò musica rap
l’emozione non ha bisogno
del traduttore

Rap

Militant A (Luca Mascini)

Canale

Gruppo informale di Alba

Raccontiamoci col RAP

Abbiamo passato 4 ore insieme e con la tecnica del racconto personale, dell’ascolto della musica e della scrittura abbiamo realizzato il nostro testo rap. Ci siamo interrogati su chi siamo, quali sono i luoghi di incontro dei ragazzi di questa provincia (la scuola, i concerti, le manifestazioni), le aspettative (saremo dei semi che fioriranno), il futuro e il mondo del lavoro; arrivando a tratteggiare l’identità collettiva di un pezzo di generazione di ragazzi e ragazze di provincia alla ricerca di un proprio spazio e ruolo nella società. Nel testo rap emerge, con un linguaggio giovanile tipico della nuova generazione, una certa capacità critica, una coscienza ambientale, amore per la musica e le espressioni artistiche come possibilità di comunicazione.

Ci siamo incontrati a scuola
ai punkreas, al 25 aprile
a smerdare vinum
(per dirla in linguaggio giovanile)
ci siamo incontrati al Friday
al concerto dei Verdena
ci siamo riconosciuti
anche se c’era la sala piena
siamo minorenni,
poeti pittori pure un po’ pazzarelli
siamo tutti fratelli
e ci facciamo tra di noi a brandelli
siamo potesse streghette psicologhe
vogliamo prenderci cura
per smettere di avere paura
l’anima umana è l’unica cosa che dura
in questa Alba rossa piena di aspettative
ci vediamo in un futuro senza cose cattive
in quest’Alba che ci annebbia gli occhi
la infestiamo come pidocchi
in questo paese dei balocchi
la riempiamo di alberi
lanciando i nostri semi
che fa troppo freddo
e ci sono problemi
tanta droga, presi male
e ogni tanto spunta anche
una testa di maiale
la Zona H sembrava una baracca
a parte la nostra Marghe polacca
ci rifugiamo nella sala
a fare un bel festone
e in coro cantiamo
qui non ci prende il padrone
facciamo mostre di quadri slam di poesie
andiamo ad abitare queste scuderie
fondiamo la statua di Govone
e forgiamo l’autorganizzazione
nello skate park scriviamo un manifesto
per crearci da soli un pretesto.

Rap

Militant A (Luca Mascini)

Alba

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